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Gianni Zonin e la Popolare di Vicenza, l'Espresso: "ultimo brindisi per il re"

Di Rassegna Stampa Sabato 3 Ottobre 2015 alle 15:32 | 0 commenti

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Nell'estate nera della Popolare di Vicenza, tra buchi in bilancio e indagini della magistratura, neppure il vino ha portato conforto a Gianni Zonin, da vent'anni al timone della banca veneta. A fine agosto, il Consiglio di Stato ha stabilito che il moscato di Zonin non è vero moscato. Niente etichetta docg, quindi, perché i vigneti della tenuta astigiana Castello del Poggio, di proprietà del banchiere, si trovano fuori dalla zona di produzione caratteristica.

«Una sentenza scandalosa», ha tuonato l'imprenditore vicentino, padrone di uno dei marchi più noti dell'industria enologica nazionale, con duemila ettari coltivati a vigneti dal Piemonte alla Sicilia, dalla Toscana al Friuli.

La tegola del moscato colpisce un uomo da mesi sulla difensiva. Dopo una vita al comando, il patron della Popolare di Vicenza, 77 anni, si trova costretto ad attaccare gli altri nel disperato tentativo di salvare se stesso. E allora, se adesso la banca è travolta dalla scandalo, con decine di migliaia di soci ingannati e furibondi, i responsabili del disastro, secondo Zonin, vanno cercati nel «precedente management che non ha rispettato le norme vigenti». Parole sorprendenti, pronunciate in pubblico il 5 settembre scorso, davanti a una folla di dirigenti dell'istituto di credito vicentino. Come dire che l'ex direttore generale Samuele Sorato, uscito di scena a maggio, avrebbe manovrato, con pochi e selezionati complici, centinaia di milioni tra prestiti ai soci e investimenti a rischio. Tutto questo senza che il consiglio di amministrazione, a cominciare dal presidente in sella da un ventennio, avesse il benché minimo sospetto su quanto stava accadendo in banca.
La magistratura indaga. E saranno i giudici, alla fine, a stabilire se questa ricostruzione ha qualche fondamento. Intanto però il muro di Vicenza è già crollato. E con il muro anche il piedistallo che da decenni aveva fatto di Zonin l'intoccabile tra gli intoccabili, il mandarino di un potere costruito a Vicenza ma sempre guardando altrove, verso la Banca d'Italia, i palazzi della politica romana e anche quelli della Sicilia, dove la Popolare un tempo rampante è cresciuta grazie ai rapporti con i viceré locali, come l'ex presidente Salvatore Cuffaro, poi finito nei guai (e in carcere) per i suoi rapporti con il sottobosco mafioso.
Un successone, all'inizio. La banchetta di provincia cresce. Un'acquisizione tira l'altra e la gente applaude il capo. Nel 1996, quando Zonin prende il timone, la Popolare Vicentina (allora si chiamava così) contava 150 sportelli e poco più di 20 mila azionisti. Adesso le filiali sono 650 e gli azionisti oltre 120 mila. Nel frattempo il re del vino diventato banchiere ha fatto il gran salto nell'alta finanza, si è aperto un varco nei grandi affari del capitalismo nostrano, ha conquista i titoli dei giornali a suon di annunci.
Nel 1998, tanto per cominciare, l'istituto veneto, alleato a colossi come l'Ina e lo spagnolo Banco Bilbao, compra una quota della Bnl appena privatizzata. La vendita di quelle azioni frutterà profitti per centinaia di milioni di euro e anche un processo, da cui Zonin uscirà assolto, per complicità nella scalata alla banca romana lanciata nel 2005 dall'Unipol di Giovanni Consorte insieme a una variegata compagnia di soci. Nel 2002 arriva la prima grande acquisizione fuori dal Triveneto. La Cassa di Prato, a quei tempi in grave difficoltà, viene salvata grazie all'intervento della banca vicentina.
Il gran capo della Popolare si muoveva con le spalle ben coperte. Antonio Fazio, all'epoca governatore della Banca d'Italia, approva e benedice la crescita a tappe forzate di Vicenza. Fazio esce di scena nel 2006, travolto dalle disavventure della Popolare Lodi di Gianpiero Fiorani, un altro suo protetto. Zonin, però, non ha mai smesso di coltivare rapporti al massimo livello nelle stanze dell'Authority di Vigilanza. Il caso che ha fatto più rumore, almeno di recente, è quello di Giannandrea Falchi, già stretto collaboratore di Mario Draghi quando era governatore. Falchi è stato ingaggiato nel 2013 come consigliere per le relazioni istituzionali. Negli anni precedenti, però, anche altri funzionari di Bankitalia erano approdati nella città del Palladio. Per esempio Mariano Sommella, assunto nel 2008 con i gradi di responsabile della segreteria generale. E poi Luigi Amore, ex ispettore della Vigilanza diventato responsabile dell'audit, i controlli interni. In consiglio di amministrazione, sulla poltrona di vicepresidente, troviamo invece Andrea Monorchio, che come Ragioniere generale dello Stato per ben 13 anni, dal 1989 al 2002, ha accumulato un patrimonio di esperienza e di conoscenze che Zonin ha pensato bene di mettere al servizio della sua Popolare.
La nomina di Monorchio risale al 2011. In quel periodo, con la recessione che incombe e migliaia di clienti che faticano a restituire i prestiti, la Popolare naviga in acque sempre più agitate, ma è difficile capirlo dai bilanci. Il presidente rassicura tutti paragonando la sua banca alla Svizzera, un'oasi di benessere nel mondo in tempesta. E tra i suoi collaboratori nessuno osa dire il contrario. Neppure quelli che, almeno in teoria sarebbero pagati per vigilare sulla regolarità dei conti. Silenzio. E non è una sorpresa. Il gran capo dell'istituto si è circondato di fedelissimi e chi canta fuori dal coro perde il posto. Non per niente nell'arco di una ventina d'anni hanno fatto le valigie almeno otto direttori generali e una dozzina di responsabili della finanza, l'area più delicata. Anche tra gli amministratori è stata premiata la fedeltà. Il vicepresidente Marino Breganze, 68 anni, siede in consiglio dal lontano 1986. Almeno un terzo dei 18 componenti del board ha varcato la soglia dei settant'anni e gran parte degli altri viaggia intorno ai sessanta. Tutti fedelissimi di Zonin, così come il presidente del collegio sindacale Giovanni Zamberlan, classe 1939, un commercialista che da tempo lavora come professionista di fiducia per gli affari personali del presidente.
Nomine inopportune e conflitti d'interesse erano lì, nero su bianco, sotto gli occhi di tutti. Nessuno si è mosso, però. Del resto gli affari andavano alla grande. E cresceva anche il valore dei titoli dell'istituto, fissato di anno in anno sulla base di una perizia commissionata dalla banca stessa. Già nel 2001 un'ispezione della Banca d'Italia si era occupata dei criteri con cui vengono valutate le azioni. Nessun rilievo. Nessuna sanzione. E finisce nel nulla anche un esposto sullo stesso tema presentato da un'associazione di consumatori (Adusbef) nel 2008. Il tribunale archivia. Così come, tre anni prima, al termine di un lungo batti e ribatti giudiziario, i giudici avevano deciso di non dar seguito all'esposto di gruppo di azionisti che denunciava presunti affari in conflitto d'interesse di Zonin. Poi si è scoperto che Antonio Fojadelli, il pm che per primo indagò sul caso chiedendo l'archiviazione è stato ingaggiato come amministratore in una società controllata dalla Popolare. Mentre Giuseppe Ferrante, un ufficiale della Guardia di Finanza che partecipò all'indagine, nei primi mesi del 2006 ha lasciato l'incarico di capo della Tributaria a Vicenza per diventare dirigente della banca cittadina.
Per anni gli ispettori della Vigilanza vanno e vengono, ma il presidente della Popolare resta ben saldo in sella. È lui il potere forte del Nordest. Fila d'amore e d'accordo con il sindaco di Verona, Flavio Tosi, e anche con Giancarlo Galan, il governatore veneto poi travolto dallo scandalo Mose. Nulla cambia con il successore di Galan, il leghista Luca Zaia. A Vicenza i sindaci passano, Zonin resta. E il potere locale non può fare a meno di omaggiare il banchiere che finanzia ogni sorta di iniziativa, dal calcio alle mostre alla beneficenza.
Il gran capo della Popolare, però, pensa in grande. I confini regionale gli stanno stretti e cerca altrove il modo di crescere. L'obiettivo dichiarato è quello di arrivare a mille filiali, costi quel che costi. Nel 2007 vengono acquistati a peso d'oro 61 sportelli messi in vendita in Lombardia dalla bergamasca Ubi Banca. La Toscana è presidiata grazie alla rete ereditata dalla Cassa di Prato. È in Sicilia, però, che Zonin si muove con il piglio del conquistatore. La controllata Banca Nuova, partita praticamente da zero nel 2000, cresce fino a rubare la scena al mattatore locale, il Banco di Sicilia passato sotto il controllo di Unicredit. Zonin, che in Sicilia possiede una grande tenuta (comprata nel 1997) a Butera, nel Nisseno, diventa di fatto il più influente banchiere locale.
A dirigere le operazioni sul campo c'è Francesco Maiolini, l'amministratore delegato di Banca Nuova. Maiolini sa come muoversi nell'acqua torbida del potere isolano. Tra l'altro mette a libro paga parenti e amici di politici e magistrati. Qualche esempio: il figlio del procuratore di Palermo, Francesco Messineo, la figlia di Diego Cammarata, sindaco del capoluogo tra il 2001 e il 2002. Grazie ai legami con i governatori, prima Cuffaro, poi Salvatore Lombardo, in breve tempo Banca Nuova diventa una sorta di succursale finanziaria della Regione e gestisce miliardi di fondi pubblici. Maiolini corre. Forse troppo. Fatto sta che nel 2012, a maggio, perde il posto. Era diventato un viceré, autonomo a tal punto da fare ombra al capo, a Zonin. E il presidente non tollera concorrenti in casa.
Intanto, la Popolare arranca. Servono nuovi capitali per tappare le falle in bilancio, sempre più evidenti. Sui giornali, però, viene venduta l'immagine della banca rampante, che cerca soldi per diventare ancora più grande. Bankitalia vede. E tace. Anzi, accredita Vicenza come "polo aggregante", pronta per nuove acquisizioni. Scende in campo Sorato, il fedelissimo di Zonin, una carriera tutta interna all'istituto. Gli aumenti di capitale, nel 2013 e nel 2014, vengono finanziati con quasi un miliardo di prestiti irregolari ai soci. Per non parlare degli investimenti ad alto rischio nei fondi offshore.
Lo scandalo emerge molto più tardi e solo grazie alla Vigilanza europea, quella della Bce di Francoforte. Poi arrivano Guardia di Finanza e magistrati. Siamo all'ultimo atto della storia. «Io non c'entro», si difende Zonin. Il guaio, per lui, è che nessuno lo applaude più. La sala è vuota.

di Vittorio Malagutti da l'Espresso


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