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Banche in Veneto: sofferenze a 18 miliardi. Francesco Zen: il localismo non è sbagliato, ma che non diventi incestuoso

Di Rassegna Stampa Lunedi 16 Maggio 2016 alle 08:03 | 0 commenti

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Da una parte il travaglio delle ex Popolari trasformate in Spa, fra la svalutazione delle azioni, le difficoltà della ricapitalizzazione, le insidie della quotazione, gli indugi sull’azione di responsabilità. Dall’altra l’affanno del credito cooperativo, tra dolorosi commissariamenti e inevitabili liquidazioni, nella cornice di una riforma tanto necessaria quanto delicata. La grave malattia che affligge il sistema bancario veneto è caratterizzata da un sintomo inequivocabile: i crediti in sofferenza. Un fenomeno che, nel settennato della grande crisi, è pressoché triplicato, aumentando addirittura di sette volte nel settore dell’edilizia. Per cui la domanda delle domande alla fine è questa: ma di chi è stata la colpa? È stata (solo) degli errori, dolosi o colposi, nella gestione degli istituti che hanno prestato i soldi? O è stata dell’incapacità di restituire i denari da parte delle famiglie, e soprattutto delle imprese, travolte dalla recessione?

I numeri
Niente di nuovo sotto il sole, si dirà. Già, ma un conto è dirlo a parole, un altro è dimostrarlo con i numeri. Ecco allora le cifre, certificate dalla Banca d’Italia in Veneto, sulle sofferenze nette: si tratta, al netto dell’ammontare complessivo delle perdite di valore, dei crediti la cui totale riscossione non è certa per gli istituti che hanno erogato i finanziamenti, dal momento che i soggetti debitori si trovano in uno stato d’insolvenza (anche se non accertato giudizialmente) o in situazioni sostanzialmente equiparabili. Da questo punto di vista al 31 dicembre 2015 risultava un dato di 18,2 miliardi, ripartito fra i 2.950 milioni delle «famiglie consumatrici» (individui o gruppi di individui nella loro qualità di consumatori), i 1.152 delle «famiglie produttrici» (imprese individuali e società di persone che impiegano fino a cinque addetti) e i 14.119 delle «attività economiche», ulteriormente distinte in industriali (4.447), servizi (5.294) e costruzioni (4.209). La tendenza
Impressionante è la tendenza che emerge dal confronto con la rilevazione al 31 dicembre 2009, quando il totale era di 5,7 miliardi, suddiviso fra i 1.010 milioni dei consumatori, i 487 delle piccole ditte artigiane e commerciali e i 4.247 delle aziende manifatturiere (2.032), terziarie (1.547) e edili (612). «Non c’è dubbio alcuno che la crisi abbia battuto fortemente sul tessuto economico, per cui non si possono attribuire tutte le colpe alle banche», rileva Francesco Zen, professore associato di Banking, financial and risk management al Bo di Padova. «Due crisi diverse e severe, l’una globale nel 2008 e l’altra italiana nel 2011, non potevano che tradursi in questi numeri», annota Ugo Rigoni, docente ordinario di Economia degli intermediari finanziari a Ca’ Foscari di Venezia. Il mattone

Per notare com’è lievitato il problema nel tempo, basta osservare l’incremento globalmente registrato anno dopo anno: 5,7 miliardi nel 2009; 7,3 nel 2010; 9,6 nel 2011; 11,5 nel 2012; 14 nel 2013; 16,3 nel 2014; 18,2 nel 2015. Un aumento esponenziale che, nel caso del mattone, è ancora più vistoso: da 612 milioni nel 2009 a 4.209 nel 2015, appunto, passando per tappe intermedie che segnano un vertiginoso crescendo (934 nel 2010, 1.511 nel 2011, 1.998 nel 2012, 2.689 nel 2013, 3.540 nel 2014). «In un momento di euforia — ammette Giovanni Salmistrari, presidente regionale dell’Associazione nazionale costruttori edili (Ance) — più di qualcuno nella nostra categoria si è trovato in difficoltà dopo aver fatto il passo un po’ più lungo della gamba. Ma nella maggior parte dei casi le sofferenze sono da imputare piuttosto a quelli che definirei “gli improvvisati”, i cosiddetti immobiliaristi che hanno comprato i terreni e ci hanno fatto edificare sopra, spesso in aree mal collegate e peggio servite, col risultato di gonfiare l’invenduto. Il problema è che le banche si sono limitate a guardare al famoso rating e non alla storia delle imprese, magari concedendo i denari a chi non se li meritava e spesso negandoli a chi aveva più testa».

I debiti cattivi
Eccoci dunque al cuore del dibattito sui bad debts , che sul piano della distribuzione geografica denotano una situazione variegata a seconda della tipologia. Esaminando per semplicità l’ultimo anno, le piccole imprese vedono in testa Verona con 257 milioni, le famiglie sono guidate da Treviso con 659 milioni e le grandi aziende hanno davanti Padova con 3.217 milioni. «Fra una crisi e l’altra — riprende il ragionamento Zen — le transazioni immobiliari sono crollate del 40%. Tutte le operazioni che all’epoca stavano nascendo, e che in seguito non sono più state portate a termine, di fatto hanno generato il blocco assoluto del settore edilizio, il che è un po’ come ammazzare un neonato nella culla. A ciò si è indubbiamente aggiunto un comportamento bancario teso a favorire l’immobiliare in maniera preponderante, pensando con un po’ troppa leggerezza che la garanzia immobiliare avrebbe comunque coperto il fido, ma questo è stato solo uno dei fattori». Una componente comunque assai rilevante secondo Salmistrari: «Mentre prima le banche davano il 120% del valore dell’immobile, finanziando pure il mobilio delle case, poi sono passate improvvisamente a zero, toccando così l’eccesso opposto. Ed ora il risultato qual è? Avendo messo a perdita l’esposizione, adesso gli istituti di credito si possono permettere di vendere gli appartamenti sotto costo, scatenando in questo modo un nuovo effetto domino: quello di una piazza drogata al ribasso, dove le abitazioni vengono proposte a prezzi assolutamente fuori mercato, causando un danno a chi sta cercando di ripartire con nuove operazioni sane».
Gli impieghi
I numeri in termini assoluti effettivamente colpiscono. Ma per valutarne meglio il peso, vale la pena di considerare le sofferenze in relazione agli impieghi, ovvero i finanziamenti erogati dalle banche a soggetti non bancari, calcolati al valore nominale, al lordo delle poste rettificative e al netto dei rimborsi: mutui, scoperti di conto, prestiti contro cessione di stipendio, anticipi su carte di credito, prestiti personali, leasing e così via. Al 31 dicembre 2009 questo dato era pari a circa 142 miliardi, mentre alla stessa data del 2015 l’importo si attestava a quota 156. Questo significa che all’inizio del periodo preso in esame i crediti irrimediabilmente deteriorati costituivano il 4% del totale, mentre alla fine dello scorso anno erano saliti all’11,6%. Il che, tradotto in soldoni, vuol dire che su dieci euro prestati, uno (e pure abbondante) non torna indietro. «Ma se la crisi ha toccato indistintamente tutte le banche — continua la riflessione Rigoni — alcuni istituti sono stati più penalizzati ed altri lo sono stati di meno, a causa di due elementi. Da un lato la selezione del credito, vale a dire il complesso di procedure, struttura organizzativa e competenze, la cui maggiore o minore robustezza determina processi più o meno efficaci. Dall’altro la composizione del portafoglio crediti, cioè la politica in base a cui una banca sceglie di svilupparsi verso certi settori piuttosto che altri, per cui se si espone troppo sull’immobiliare che è scoppiato o sulle Pmi che non si sono internazionalizzate, è ovvio che patisce un gravame maggiore. E questo va al di là della prassi di privilegiare “gli amici degli amici”, che non è affatto una politica, ma è semmai la sua totale assenza, è la negazione del concetto di visione strategica» .
I tagli
A completare il quadro delle fragilità, concorrono infine i numeri sulla chiusura di filiali ed esuberi dei bancari. Fra 2009 e 2015 gli istituti in Veneto hanno subìto un taglio secco di 500 filiali (da 3.645 a 3.145), mentre i dipendenti sono scesi di circa 2.000 unità (da 32.276 a 30.319). Il sistema bancario veneto uscirà da questo tunnel? «Le banche sono soggetti lenti e ci vuole pazienza — premette Zen — ma qualche modello di business deve cambiare. Quello del circuito finanziario locale non è un concetto sbagliato, ma bisogna che il localismo non diventi eccessivo e miope, talmente legato a doppio filo col territorio da trasformare una relazione territoriale in un rapporto incestuoso». «Anche se le sofferenze, cioè i crediti defunti, diminuiranno — aggiunge Rigoni — nel breve-medio periodo resterà serio il problema del costo del credito, causato dallo zavorramento degli accantonamenti effettuati in vista della futura evoluzione dei crediti deteriorati, che possono guarire ma anche morire».
La cultura
Quella che deve risuscitare secondo Nicola Benini, amministratore delegato dei consulenti finanziari indipendenti di Ifa Consulting, è la cultura finanziaria: «Su questo piano le nostre imprese sono delle analfabete, in quanto non conoscono le regole del gioco rispetto alla controparte bancaria, che giustamente fa il proprio business. Ci sono ancora imprenditori che pensano che il contratto finanziario sia un patto fiduciario, tant’è vero che alle assemblee li abbiamo sentiti dire: “Ma io mi fidavo del tal direttore… io avevo fiducia nel tal presidente…”. Quando uno ha mal di testa, deve andare dal medico che gli fa una diagnosi obiettiva, non dal farmacista che gli vende questo o quel medicinale. Ecco: la banca è il farmacista, il consulente finanziario è il medico». Quanto al virus che ha infettato il sistema bancario veneto, alla fine dell’analisi sembra dunque emergere un agente misto: sia la cattiva gestione che la dura crisi. A stabilire in che proporzione l’una e l’altra sarà, come si dice, la storia. E forse pure la magistratura.
Di Angela Pederiva, da Il Corriere del Veneto


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