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Travaglio e i "cervelli clandestini"

Di Rassegna Stampa Martedi 12 Gennaio 2016 alle 11:29 | 0 commenti

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Di seguito un commento di Marco Travaglio da Il Fatto Quotidiano sulla questione reato di immigrazione clandestina

Il governo Renzi, in base ai pareri tecnici dei suoi nuovi consulenti Salvini, Gasparri, Sallusti e Belpietro, ha deciso: contrariamente a quel che aveva deliberato il Parlamento con la legge delega approvata il 2 aprile 2014 da Pd, Ncd, Sel e M5S, il reato di immigrazione clandestina non si abolisce più. Non subito, comunque non tutto. Magari un domani, solo un po’. I motivi li hanno illustrati gli stessi che due anni fa davano dei populisti e dei nazisti a Grillo e Casaleggio che dissentivano, ma poi rimisero la questione al voto degli iscritti al blog e finirono in minoranza.

Ora quel trust di cervelli parla così: “Si perdono voti”(Renzi, premier); “in questa specifica fase occorre preparare prima l’opinione pubblica ” che ha “una percezione ”falsata dai mezzi di comunicazione ” sui reati che “sembrano triplicati” e invece calano (Boschi, ministra); “giocare due partite intrecciate ma diverse: una sulla realtà, l’altra sulla percezione della realtà” e “non dare l’idea di un allentamento della tensione sulla sicurezza mentre chiediamo di accogliere i profughi”, anche se “calano i reati” (Alfano, ministro); “tenere conto di tutti gli aspetti psicologici e di percezione pubblica” (Gozi, sottosegretario). E così il reato più inutile, anzi dannoso per gli stessi obiettivi repressivi e deterrenti che si prefiggevano i suoi autori (ministro Maroni, governo B., 2009), diventa la cartina al tornasole della cialtroneria non solo del centrodestra che lo istituì, ma anche del centrosinistra che vuole conservarlo un altro po’. Anziché usare i media – quasi tutti al suo servizio – per spiegare agli italiani cosa succede nei processi per clandestinità, Renzi opta per il populismo d’accatto: alimentare l’ignoranza e approfittarne, spacciando per politiche di sicurezza quelle di rassicurazione e facendo credere che chi vuol conservare il reato sia un legalitario e chi vuole abolirlo un “buonista”. Il tutto al prezzo di impegnare migliaia di magistrati, poliziotti, avvocati, interpreti, cancellieri, ufficiali giudiziari a pestare l’acqua nel mortaio, distogliere risorse alla lotta contro i veri criminali e gettare milioni nel cesso. Per chi non lo sapesse, da quando 7 anni fa Pdl & Lega (Alfano compreso) s’inventarono il reato, le cose funzionano così. Un barcone approda sulle nostre coste carico di migranti. Per i morti, una prece. Per i vivi c’è subito un bel fermo di 48 ore o una denuncia a piede libero della polizia alla Procura competente, che iscrive ogni migrante sul registro degli indagati e apre un fascicolo per ciascuno. Il tizio viene munito di avvocato d’ufficio (a carico della collettività, parcella media 500 euro a botta) e ovviamente di interprete (che va pagato pure lui). Non avendo documenti, di solito dà false generalità. Segue interrogatorio, quasi sempre a vuoto: il pm chiede notizie sullo scafista, per identificarlo e acciuffarlo, ma il tizio, essendo indagato, si avvale della facoltà di non rispondere e/o di mentire. Se fosse un semplice testimone, o una parte lesa dello scafista, avrebbe l’obbligo di parlare e di dire la verità. Ma è indagato, quindi ciccia. Lo scafista, che l’ha debitamente minacciato, è salvo. Se non è proprio uno sprovveduto, il migrante dice pure di essere siriano o libico anche se non lo è: fuggendo dalla guerra, ha diritto d’asilo. Così il processo si blocca per anni, finché l’apposita commissione non decide se dargli o no lo status di rifugiato. Per chi se lo vede negare, o per i fessi che non raccontano frottole sulla fuga dall’Isis, le indagini partono subito e, rapporto di polizia alla mano, finiscono col rinvio a giudizio. Che va notificato all’imputato, il quale però nel frattempo si è reso irreperibile (anche perché, se resta lì, possono fargli subito il decreto penale di condanna senza dibattimento): due, tre notifiche a vuoto, poi il decreto di irreperibilità. Dopo mesi o anni, appena il tribunale ha un buco in agenda, parte il processo. Che dura in media tre udienze: una per avviare il dibattimento; una per sentire il poliziotto che ha fermato o identificato il presunto clandestino e che perde almeno un giorno di lavoro per ripetere centinaia di volte la stessa litania; una per la sentenza. Quasi sempre di condanna. E qui la farsa tocca l’apice: all’imputato, naturalmente assente, il giudice infligge una pena che, per severa che sia (ma non può esserlo troppo: con quell’identità, ovviamente falsa, il tizio risulta incensurato), è sempre commutabile in un’ammenda fra i 5 e i 10 mila euro. Che, se per miracolo lo trovano, non potrà mai pagare (è nullatenente per definizione). In compenso lo Stato deve impiegare altri soldi e altri uomini per tentare la notifica. La sceneggiata si ripete in appello e in Cassazione, che 99 volte su 100 dichiara la prescrizione. Non basta: se un sicuro clandestino è sotto processo, per espellerlo bisogna attendere la Cassazione, quando è già da anni uccel di bosco, mentre prima si poteva allontanarlo subito, quando si sapeva dove trovarlo. Tanto per dire la potenza deterrente del reato di clandestinità. Se poi il tizio viene beccato dall’altro capo d’Italia con un altro nome, ma con le stesse impronte digitali, espulso più volte e mai partito, la Procura deve prendere atto di aver fatto condannare un imputato inesistente, aprire un altro fascicolo, correggere le generalità del fantasma e processarlo per false dichiarazioni. Ad Agrigento i 13 pm che hanno aperto 50 mila fascicoli in tre anni, non ricordano una sola condanna eseguita, una sola multa pagata. Però si continua così: motivi “psicologici”. Grazie a un governo di casi psichiatrici.

 

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